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IL SABATO DEL VILLAGGIO

IL SABATO DEL VILLAGGIO
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Giovanni Battista Mariani

Il sabato del villaggio è una poesia composta da Giacomo Leopardi nel 1829 durante il suo ultimo periodo trascorso a Recanati. Questa poesia descrive un quadro di vita paesana durante un sabato sera, una fervente attesa del giorno festivo all'indomani, destinata poi a rimanerne profondamente delusa: è con questa suggestiva allegoria che Leopardi illustra la sua visione sul piacere, secondo la quale la gioia umana si manifesta nell'attesa di un piacere irraggiungibile, ed è pertanto fugace ed effimera.

Durante le ore di «studio matto e disperatissimo» nella ricchissima biblioteca del padre Monaldo, il giovane Leopardi usava accostare il suo tavolino accanto a una finestra, così da ottimizzare lo sfruttamento della luce solare: tale finestra si affacciava su una piazzola dove gli abitanti di Recanati si ritrovavano per organizzare le piccole feste domenicali. È proprio questo piccolo slargo ad ispirargli la stesura del Sabato del villaggio, idillio scritto di getto il 29 settembre 1829 dove riflette sulla vanità della gioia umana.

La piazzetta del Sabato del Villaggio di Recanati

Il componimento si apre con la descrizione di un piccolo borgo rurale immerso nell'atmosfera serale di un sabato primaverile, quando molti abitanti sono impegnati nei preparativi per la domenica, giorno festivo. Una giovinetta è colta nell'attimo in cui, arrivando dalla campagna al tramonto, reca in mano un fascio d'erba e un «mazzolin di rose e di viole» (v. 4) con cui può ornarsi i capelli. Quest'ultimo verso, in particolare, è al centro di una vexata quaestio alimentata da Giovanni Pascoli, fine botanico, il quale ha notato che le rose e le viole non fioriscono nella medesima stagione, denunciando pertanto l'irrealtà della situazione bucolica descritta dal poeta: il dibattito tuttavia è ancora aperto, siccome vi sono anche critici che sostengono la possibilità di un simile accoppiamento botanico («gran discussioni su queste rose e viole di Leopardi!» avrebbe scritto Mario Fubini nel Novecento).[1]

Ritornando alla lirica, l'immagine della «donzelletta [che] vien dalla campagna» è seguita dalla descrizione di una «vecchierella» che, contemplando il tramonto, rivive il piacere del dì di festa raccontando alle compagne della sua giovinezza, quando anche lei si agghindava per andare a ballare con i suoi compagni di gioventù. Perdendosi un po' nei dettagli del ricordo, la vegliarda è totalmente immersa nella rimembranza di quella che era un'età lieta e felice della vita, in cui era ancora «sana e snella» (v. 13) e possedeva una bellezza sfolgorante, poi sfiorita con il succedersi degli anni. Dal punto di vista allegorico, la «donzelletta» allude ai desideri che, a causa della Natura matrigna, non possono essere realizzati,[2] mentre la «vecchierella» stabilisce un indissolubile legame tra la fine del giorno e il termine della vita umana, ovvero la morte.[3] Ci sono poi i «fanciulli» che, all'imbrunire, manifestano un istintivo moto di letizia per l'attesa del giorno festivo e, dopo essersi incontrati tutti nella piazzetta, iniziano a saltare di qua e là, producendo un «lieto romore».

Analogamente, con un'immagine lievemente più malinconica delle precedenti, Leopardi descrive il contadino che ritorna fischiando a casa, rasserenato dalla prospettiva di potersi finalmente riposare il giorno successivo, mentre il falegname sta affrettatamente terminando il suo lavoro così da potersi dedicare all'indomani esclusivamente alla gioia e al riposo. La prima strofa, pertanto, descrive uno scenario idilliaco e rasserenante, ricco di percezioni uditive (il grido dei fanciulli, lo stridere della sega del falegname ...) che Leopardi definisce «piacevoli» perché evocano un senso di vago e indefinito:

«È piacevole per se stesso, cioè non per altro se non per un'idea vaga ed indefinita che desta, un canto (il più spregevole) udito da lungi o che paia lontano senza esserlo o che si vada a poco a poco allontanando e divenendo insensibile o anche viceversa (ma meno) o che sia così lontano, in apparenza o in verità, che l’orecchio e l'idea quasi lo perda nella vastità degli spazi; un suono qualunque confuso, massime se ciò è per la lontananza; un canto udito in modo che non si veda il luogo da cui parte; un canto che risuoni per le volte di una stanza ec., dove voi non vi troviate però dentro; il canto degli agricoltori che nella campagna s'ode suonare per le valli, senza però vederli, e così il muggito degli armenti ec»

Epigrafe affissa presso piazza del Sabato del Villaggio a Recanati: «I fanciulli gridando / su la piazzuola in frotta, / e qua e là saltando, / fanno un lieto romore»

Nella terza strofa termina la parte descrittiva del componimento (in cui come abbiamo visto è presentato il villaggio che si prepara al dì festivo) e ha inizio quella teorico-filosofica, dove Leopardi riflette sul grande tema del piacere e della felicità umana. Tutti gli abitanti del borgo descritto nel poema, osserva Leopardi, sono animati da un inconsueto fervore dovuto all'attesa della domenica. Il piacere della festa, pertanto, è nel sabato precedente (v. 38: «questo di sette è il più gradito giorno»), quando la festa è imminente, ma non ancora presente: una volta arrivata la domenica, invece, tutti capiranno come la festa sia effettivamente poco conforme alle gioie che si aspettavano, e pertanto ognuno tornerà ai tristi pensieri dello squallido lunedì, quando si torna purtroppo al lavoro consueto (v. 41: «travaglio usato»).

Questa situazione viene poi paragonata dal poeta alla vita stessa: il sabato simboleggia la giovinezza, età felice in cui si è pieni di gioia per l'attesa della maturità: una volta cresciuti, invece, ci si renderà conto di come l'esistenza umana sia priva dei piaceri tanto attesi durante l'adolescenza, e piena di noia e tristezza, così come accade ai paesani del Sabato del villaggio durante la domenica. È per questo motivo che Leopardi, nell'ultima strofa, si rivolge con un misto di benevolenza e di bonaria ironia a un «garzoncello scherzoso», ancora ignaro della crudeltà che regola gli accadimenti umani. A questo fanciullo immaginario egli suggerisce di godere serenamente la sua «età fiorita» di speranze, senza desiderare di crescere affrettatamente siccome è proprio nell'età adulta (v. 47: «festa di tua vita») che i desideri adolescenziali si rivelano illusori e dolorosi.[4]

Il sabato del villaggio risponde alla forma metrica della canzone libera, con strofe di endecasillabi e settenari a rima libera, alternati senza seguire uno schema prestabilito fisso, ma seguendo le esigenze dettate dell'ispirazione. Parallelamente alle tematiche affrontate, il ritmo della prima strofa è alacre e festivo, quasi spensierato: Leopardi ottiene quest'effetto grazie all'uso frequente e prolungato degli agili settenari. In chiusura, invece, il ritmo del poema sembra prolungare, divenendo più moderato grazie all'impiego degli endecasillabi.

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 A pochi giorni dal provvedimento approvato dal Consiglio dei Ministri, che sancisce il divieto di produzione, commercializzazione, importazione del cibo sintetico, la Casciotta d'Urbino DOP, dal Vinitaly di Verona, con l’incontro dal titolo ‘La Bellezza è nel Gusto’, nello spazio di Food Brand Marche, mira a ribadire l’importanza del cibo tradizionale, capace di rispettare la natura degli alimenti e di chi ne fa uso.L’obiettivo è anche quello di sottolineare la rilevanza degli allevamenti per l’economia del territorio e per la tutela delle tradizioni e della biodiversità, come dell’intera filiera alimentare delle Marche, con il suo patrimonio di tradizioni e saperi locali quali garanzia dell’assoluta bontà e genuinità dei prodotti nonché per la tutela della salute dei cittadini.“Una Casciotta d'Urbino Dop - secondo Paolo Cesaretti, Coordinatore del Consorzio Tutela - è molto più di un semplice alimento. Può suscitare emozioni come scoperta, brivido, stupore, sogno, prodigio, affinità e adorazione, ma anche, sebbene raramente, delusione e disappunto. Se non avesse tutte queste sfumature, non sarebbe altro che un comune cibo”.“Il cibo sintetico - dichiara l’on. Mirco Carloni, Presidente della XIII Commissione Agricoltura alla Camera dei Deputati - oltre al fatto che non può essere paragonato ai nostri prodotti della tradizione, è una grande menzogna. Per produrlo in laboratorio si devono uccidere comunque degli animali. E non è nemmeno più sostenibile. Il governo ha fatto bene a imporre il divieto - con il provvedimento approvato in Consiglio dei ministri - di vendere, importare, produrre e distribuire questo alimento. È necessario tutelare la nostra dieta mediterranea difendendola da queste nuove invenzioni che tendono a ingannare il consumatore”.Tommaso Di Sante, Presidente Coldiretti Pesaro e Urbino, difende il cibo vero da agricoltura vera: “Il cibo è un bene prezioso e di tutti ed è legato alla storia e alla cultura di un paese. Sicuri che danneggerebbe l’economia e l’immagine del made in Italy nel mondo, con il rischio di monopolio da parte di alcune grandi industrie del settore, il cibo sintetico metterebbe a rischio anche la salute dell’uomo, dato che non conosciamo con certezza gli effetti a lungo termine. La dieta mediterranea italiana rappresenta un patrimonio da valorizzare in quanto modello salutare per eccellenza e di rigoroso rispetto del territorio e della biodiversità”.Francesco Torriani, Presidente Consorzio Marche Biologiche: “Bene prendere posizione contro la produzione delle carni sintetiche, contraria a un modello produttivo che è molto lontano dalla nostra cultura e da un modello produttivo legato alla filiera agricola, ma attenzione a non usare strumentalmente il tema della produzione delle carni sintetiche per non affrontare il vero argomento che invece, come sistema agroalimentare italiano, ci coinvolge direttamente e verso il quale abbiamo le nostre responsabilità ovvero quali politiche di sviluppo prevediamo per la nostra zootecnia e per i nostri allevamenti, in un contesto dove diventano sempre più evidenti gli effetti negativi della crisi climatica e ambientale e dove le sensibilità culturali ed etiche dei consumatori ci chiedono sempre più sostenibilità ambientale e benessere animale? E’ evidente allora che la questione delle carni sintetiche deve diventare l’occasione non solo per dire no ad un modello produttivo totalmente avulso dall’agricoltura, ma anche per promuovere e qualificare ulteriormente il nostro modello produttivo zootecnico e renderlo sempre più sostenibile e in linea con le esigenze dei consumatori”.Anastasia Ciotti del Consorzio Tutela Oliva Ascolana del Piceno Dop: “L’Oliva Ascolana del Piceno Dop non ha nulla a che vedere con il cibo sintetico. E’ un prodotto principe di un piatto della tradizione antica ascolana, che contraddistingue la nostra città e mai potrà essere modificata introducendo nella ricetta fake - food”.Nata dal latte (ovino 70-80% e vaccino 30-20%) di animali liberi, sani e felici, lavorata ad arte da maestri casari, veri custodi delle nostre tipicità gastronomiche e dell'ambiente, la Casciotta d’Urbino Dop, regina della tavola sin dal ‘500, è un’eccellenza agroalimentare italiana e marchigiana, simbolo della provincia di Pesaro e Urbino, il primo formaggio ad aver conquistato la Denominazione di Origine Protetta. Protagonista di una storia d’amore secolare con il suo ambasciatore più illustre, Michelangelo Buonarroti, spicca per la sua “strana” lettera S. Una storpiatura che, si dice, sia dovuta a un errore di trascrizione di un impiegato ministeriale e che la differenzia dai formaggi che, come lei, derivano il loro termine identificativo dall'antico "cascio", variante linguistica territoriale del più diffuso "cacio".La Casciotta d’Urbino Dop divenne una specialità distintiva marchigiana con il Signore del Ducato di Urbino, Federico da Montefeltro, che decise di proteggere il suo territorio dalle scorrerie dei pastori transumanti agevolando l’uso dei pascoli per gli allevatori locali. La produzione di piccole forme rotonde, morbide e dal sapore delicato si affinò fino ad arrivare agli anni ’60 del secolo scorso quando le “vergare”, donne di casa del pesarese dedite all’allevamento del bestiame, composero la ricetta. Per tutelarne l’eccellenza, al Disciplinare si affianca il Consorzio di Tutela Casciotta d’Urbino Dop che si occupa anche della sua promozione e valorizzazione.Anche il gusto è altrettanto inconfondibile: dolce e delicata, ha il sapore del burro e del latte fresco col quale viene prodotta. Friabile e molle, all’olfatto è fragrante e aromatica. Una vera perla, versatile e perfetta per impreziosire le ricette …e le colazioni più diverse!"Preparare un piatto - conclude Paolo Cesaretti - richiede creatività, altruismo. Coinvolge i cinque sensi: gusto, olfatto, udito, vista e tatto, che si combinano sapientemente e si amalgamano insieme. È compito di Otello Renzi, animo magnanimo, generoso e piacevolmente epicureo, trasformare ciò in arte. 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Il carnevale di Offida
Il carnevale di Offida
Il carnevale di Offida (in dialetto offidano "Lu bov fint" e "Li Vlurd") è lo storico carnevale che si svolge nell'omonima cittadina marchigiana in provincia di Ascoli Piceno.La concezione del Carnevale è profondamente radicata nella popolazione offidana, tanto che le feste carnevalesche tendono ad avere un carattere di ritualità, che permea l'intera città.Anche se si respira un'immancabile aria di modernismo specie nella musica e nei balli, la memoria storica del Carnevale, in quelle sue tradizioni particolari, rimane e cerca di perpetuarsi nelle nuove generazioni.Il Carnevale offidano si svolge ogni anno secondo un rituale fissato dalla tradizione: inizia ufficialmente il 17 gennaio, giorno di Sant'Antonio Abate, e termina il giorno delle Ceneri.Il giorno della "Domenica degli Amici", che precede di due settimane il carnevale, la fanfara della "Congrega del Ciorpento" esce rumorosa dal portone del cinquecentesco palazzo Mercolini per annunciare che si è entrati in pieno clima carnevalesco.Le Congreghe, che hanno lo scopo di aggregare, tra loro, in genere parenti e amici, desiderose di partecipare alla baldoria carnevalesca, iniziano il giro del paese a ritmo di musica sempre più incalzante in prossimità del clou della festa.Esse hanno un ruolo fondamentale nello svolgimento dell'evento, la mattina del Giovedì Grasso ricevono in consegna, dal Sindaco, le chiavi della città e, da quel momento, il paese è simbolicamente nelle loro mani, così che tra allegria ed euforia le congreghe si impossessano della città.Piazza del Popolo, nel bove finto 2016Seguono i "veglionissimi" del sabato, domenica e lunedì presso Il Teatro Serpente Aureo, la mascherata dei bambini del giovedì grasso, la caccia a "Lu Bov Fint" (il bove finto) del venerdì, la festa in piazza che dura tutto il pomeriggio del martedì grasso che si conclude con la fantasmagorica sfilata dei "Vlurd".Persone dei paesi vicini e turisti, per l'occasione, giungono ad Offida, non per assistere da spettatori a sfilate di grandiosi carri allegorici, ma per essere coinvolti in un'autentica festa di popolo dove, quasi attori di rappresentazioni il cui valore simbolico cede più a quello reale delle forze vitali e istintive.L'ultimo giorno (martedì grasso) di Carnevale tutti in Offida si mascherano, alcuni sbucando da ogni parte con indosso il tipico "guazzarò" (saio di tela bianca con fazzoletto rosso al collo), altri mascherati con costumi più diffusi ma col viso tinto di vari colori, per inondare la piazza e scorrazzare per le strade tra urla, danze, scherzi di ogni sorta e lanci di coriandoli.Centinaia di uomini e donne mascherati, con lunghi fasci di canne accesi sulle spalle, in fila indiana, tra urla e danze selvagge, percorrono il Corso che sembra uno strisciante serpente fiammeggiante, quindi inondano la piazza principale al cui centro dispongono i "bagordi" ancora in fiamme; le maschere come impazzite corrono a cerchio intorno al falò mentre urla e canti si fondono tra vortici di fumo e miriadi di scintille di fuoco brillanti nell'aria. Quando il fuoco pagano che incendia la piazza con il rito bacchico dei "Vlurd" si spegne, torna sovrano il silenzio, foriero di pace quaresimale.