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Urbino: Vinitaly, "La Bellezza è nel Gusto", la Casciotta d'Urbino DOP non teme il confronto con il cibo sintetico

 A pochi giorni dal provvedimento approvato dal Consiglio dei Ministri, che sancisce il divieto di produzione, commercializzazione, importazione del cibo sintetico, la Casciotta d'Urbino DOP, dal Vinitaly di Verona, con l’incontro dal titolo ‘La Bellezza è nel Gusto’, nello spazio di Food Brand Marche, mira a ribadire l’importanza del cibo tradizionale, capace di rispettare la natura degli alimenti e di chi ne fa uso.L’obiettivo è anche quello di sottolineare la rilevanza degli allevamenti per l’economia del territorio e per la tutela delle tradizioni e della biodiversità, come dell’intera filiera alimentare delle Marche, con il suo patrimonio di tradizioni e saperi locali quali garanzia dell’assoluta bontà e genuinità dei prodotti nonché per la tutela della salute dei cittadini.“Una Casciotta d'Urbino Dop - secondo Paolo Cesaretti, Coordinatore del Consorzio Tutela - è molto più di un semplice alimento. Può suscitare emozioni come scoperta, brivido, stupore, sogno, prodigio, affinità e adorazione, ma anche, sebbene raramente, delusione e disappunto. Se non avesse tutte queste sfumature, non sarebbe altro che un comune cibo”.“Il cibo sintetico - dichiara l’on. Mirco Carloni, Presidente della XIII Commissione Agricoltura alla Camera dei Deputati - oltre al fatto che non può essere paragonato ai nostri prodotti della tradizione, è una grande menzogna. Per produrlo in laboratorio si devono uccidere comunque degli animali. E non è nemmeno più sostenibile. Il governo ha fatto bene a imporre il divieto - con il provvedimento approvato in Consiglio dei ministri - di vendere, importare, produrre e distribuire questo alimento. È necessario tutelare la nostra dieta mediterranea difendendola da queste nuove invenzioni che tendono a ingannare il consumatore”.Tommaso Di Sante, Presidente Coldiretti Pesaro e Urbino, difende il cibo vero da agricoltura vera: “Il cibo è un bene prezioso e di tutti ed è legato alla storia e alla cultura di un paese. Sicuri che danneggerebbe l’economia e l’immagine del made in Italy nel mondo, con il rischio di monopolio da parte di alcune grandi industrie del settore, il cibo sintetico metterebbe a rischio anche la salute dell’uomo, dato che non conosciamo con certezza gli effetti a lungo termine. La dieta mediterranea italiana rappresenta un patrimonio da valorizzare in quanto modello salutare per eccellenza e di rigoroso rispetto del territorio e della biodiversità”.Francesco Torriani, Presidente Consorzio Marche Biologiche: “Bene prendere posizione contro la produzione delle carni sintetiche, contraria a un modello produttivo che è molto lontano dalla nostra cultura e da un modello produttivo legato alla filiera agricola, ma attenzione a non usare strumentalmente il tema della produzione delle carni sintetiche per non affrontare il vero argomento che invece, come sistema agroalimentare italiano, ci coinvolge direttamente e verso il quale abbiamo le nostre responsabilità ovvero quali politiche di sviluppo prevediamo per la nostra zootecnia e per i nostri allevamenti, in un contesto dove diventano sempre più evidenti gli effetti negativi della crisi climatica e ambientale e dove le sensibilità culturali ed etiche dei consumatori ci chiedono sempre più sostenibilità ambientale e benessere animale? E’ evidente allora che la questione delle carni sintetiche deve diventare l’occasione non solo per dire no ad un modello produttivo totalmente avulso dall’agricoltura, ma anche per promuovere e qualificare ulteriormente il nostro modello produttivo zootecnico e renderlo sempre più sostenibile e in linea con le esigenze dei consumatori”.Anastasia Ciotti del Consorzio Tutela Oliva Ascolana del Piceno Dop: “L’Oliva Ascolana del Piceno Dop non ha nulla a che vedere con il cibo sintetico. E’ un prodotto principe di un piatto della tradizione antica ascolana, che contraddistingue la nostra città e mai potrà essere modificata introducendo nella ricetta fake - food”.Nata dal latte (ovino 70-80% e vaccino 30-20%) di animali liberi, sani e felici, lavorata ad arte da maestri casari, veri custodi delle nostre tipicità gastronomiche e dell'ambiente, la Casciotta d’Urbino Dop, regina della tavola sin dal ‘500, è un’eccellenza agroalimentare italiana e marchigiana, simbolo della provincia di Pesaro e Urbino, il primo formaggio ad aver conquistato la Denominazione di Origine Protetta. Protagonista di una storia d’amore secolare con il suo ambasciatore più illustre, Michelangelo Buonarroti, spicca per la sua “strana” lettera S. Una storpiatura che, si dice, sia dovuta a un errore di trascrizione di un impiegato ministeriale e che la differenzia dai formaggi che, come lei, derivano il loro termine identificativo dall'antico "cascio", variante linguistica territoriale del più diffuso "cacio".La Casciotta d’Urbino Dop divenne una specialità distintiva marchigiana con il Signore del Ducato di Urbino, Federico da Montefeltro, che decise di proteggere il suo territorio dalle scorrerie dei pastori transumanti agevolando l’uso dei pascoli per gli allevatori locali. La produzione di piccole forme rotonde, morbide e dal sapore delicato si affinò fino ad arrivare agli anni ’60 del secolo scorso quando le “vergare”, donne di casa del pesarese dedite all’allevamento del bestiame, composero la ricetta. Per tutelarne l’eccellenza, al Disciplinare si affianca il Consorzio di Tutela Casciotta d’Urbino Dop che si occupa anche della sua promozione e valorizzazione.Anche il gusto è altrettanto inconfondibile: dolce e delicata, ha il sapore del burro e del latte fresco col quale viene prodotta. Friabile e molle, all’olfatto è fragrante e aromatica. Una vera perla, versatile e perfetta per impreziosire le ricette …e le colazioni più diverse!"Preparare un piatto - conclude Paolo Cesaretti - richiede creatività, altruismo. Coinvolge i cinque sensi: gusto, olfatto, udito, vista e tatto, che si combinano sapientemente e si amalgamano insieme. È compito di Otello Renzi, animo magnanimo, generoso e piacevolmente epicureo, trasformare ciò in arte. Creare questo piatto di spaghetti biologici, Casciotta d'Urbino e olive Ascolana del Piceno facendone un incantesimo, abbinandolo al vino Bianchello”.L'evento, moderato dalla giornalista Veronique Angeletti, è a cura del Consorzio Tutela Casciotta d’Urbino Dop, che, sin dalla sua nascita, ha avuto il merito di aver recuperato e diffuso su ampia scala la preparazione della Casciotta d’Urbino e la sua tradizione storica.

05 Apr 2023 Enogastronomia

Urbino: Vinitaly, "La Bellezza è nel Gusto", la Casciotta d'Urbino DOP non teme il confronto con il cibo sintetico
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Il carnevale di Offida

Il carnevale di Offida (in dialetto offidano "Lu bov fint" e "Li Vlurd") è lo storico carnevale che si svolge nell'omonima cittadina marchigiana in provincia di Ascoli Piceno.La concezione del Carnevale è profondamente radicata nella popolazione offidana, tanto che le feste carnevalesche tendono ad avere un carattere di ritualità, che permea l'intera città.Anche se si respira un'immancabile aria di modernismo specie nella musica e nei balli, la memoria storica del Carnevale, in quelle sue tradizioni particolari, rimane e cerca di perpetuarsi nelle nuove generazioni.Il Carnevale offidano si svolge ogni anno secondo un rituale fissato dalla tradizione: inizia ufficialmente il 17 gennaio, giorno di Sant'Antonio Abate, e termina il giorno delle Ceneri.Il giorno della "Domenica degli Amici", che precede di due settimane il carnevale, la fanfara della "Congrega del Ciorpento" esce rumorosa dal portone del cinquecentesco palazzo Mercolini per annunciare che si è entrati in pieno clima carnevalesco.Le Congreghe, che hanno lo scopo di aggregare, tra loro, in genere parenti e amici, desiderose di partecipare alla baldoria carnevalesca, iniziano il giro del paese a ritmo di musica sempre più incalzante in prossimità del clou della festa.Esse hanno un ruolo fondamentale nello svolgimento dell'evento, la mattina del Giovedì Grasso ricevono in consegna, dal Sindaco, le chiavi della città e, da quel momento, il paese è simbolicamente nelle loro mani, così che tra allegria ed euforia le congreghe si impossessano della città.Piazza del Popolo, nel bove finto 2016Seguono i "veglionissimi" del sabato, domenica e lunedì presso Il Teatro Serpente Aureo, la mascherata dei bambini del giovedì grasso, la caccia a "Lu Bov Fint" (il bove finto) del venerdì, la festa in piazza che dura tutto il pomeriggio del martedì grasso che si conclude con la fantasmagorica sfilata dei "Vlurd".Persone dei paesi vicini e turisti, per l'occasione, giungono ad Offida, non per assistere da spettatori a sfilate di grandiosi carri allegorici, ma per essere coinvolti in un'autentica festa di popolo dove, quasi attori di rappresentazioni il cui valore simbolico cede più a quello reale delle forze vitali e istintive.L'ultimo giorno (martedì grasso) di Carnevale tutti in Offida si mascherano, alcuni sbucando da ogni parte con indosso il tipico "guazzarò" (saio di tela bianca con fazzoletto rosso al collo), altri mascherati con costumi più diffusi ma col viso tinto di vari colori, per inondare la piazza e scorrazzare per le strade tra urla, danze, scherzi di ogni sorta e lanci di coriandoli.Centinaia di uomini e donne mascherati, con lunghi fasci di canne accesi sulle spalle, in fila indiana, tra urla e danze selvagge, percorrono il Corso che sembra uno strisciante serpente fiammeggiante, quindi inondano la piazza principale al cui centro dispongono i "bagordi" ancora in fiamme; le maschere come impazzite corrono a cerchio intorno al falò mentre urla e canti si fondono tra vortici di fumo e miriadi di scintille di fuoco brillanti nell'aria. Quando il fuoco pagano che incendia la piazza con il rito bacchico dei "Vlurd" si spegne, torna sovrano il silenzio, foriero di pace quaresimale.

23 Feb 2022 Cultura

Il carnevale di Offida
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SCROCCAFUSI MARCHIGIANI

Questi sono quelli di famiglia, lasciati da una cara zia paterna che alla mia richiesta di imparare a fare le scroccafuse (si chiamano anche cosi') rispose semplicemente dicendo: " checcevo' cocca de zia, l'ove, la farina, mocco' de zuccoro, de olio e lo mistrà " !!!! Ci ho messo un po' per aggiustare il tiro con gli scroccafusi perché quel " mocco' '' ( un po' ) era davvero molto vago e lei ci lasciò prima che io potessi di nuovo "intervistarla" ma ora posso dire di essere più che soddisfatta di questo dolce di carnevale tipicamente marchigiano, maceratese soprattutto e tanto buono per quanto semplice negli ingredienti.  Molti mi chiedono se si possono fare anche al forno e io dico di si perché a quanto pare, leggendo in giro, moltissimi anni fa si cuocevano nei vecchi forni a legna con legno di canna per avere una fiamma moderata evitando così di bruciarli. La versione fritta è senz'altro quella che preferisco e con il miele è una vera goduria. Ingredienti 590 g. di farina OO 5 uova 3 cucchiai di zucchero 2 cucchiai di olio extravergine di oliva ( se le preferite più scroccarelle usate quello di girasole ) un pizzico di sale 1/2 bustina di lievito per dolci  120 g. di mistrà o liquore all'anice un pizzico di cannella olio di semi di arachide per friggere alchermes e miele di Melo Rigoni di Asiago per condire Sulla tavola mettere la farina a fontana, sgusciare le uova nel mezzo e aggiungere olio, sale e zucchero, sbattere un po' con un pizzico di cannella e unire la farina con il lievito e poi il liquore all'anice o mistrà se ne avete. Impastare bene e lasciar riposare il panetto coperto per un'ora. Fare tre o quattro bigoli larghi circa 5 cm e tagliare una sorta di gnocchi lunghi circa 4-5 cm che poi verranno lessati in acqua  per il tempo che tornano a galla ( almeno 6/7 minuti). Farli scolare e asciugare una mezz'ora su un telo e poi friggere praticando con le forbici dei tagli a croce o trasversali in modo che si abbia la classica forma. Friggete con il coperchio perché il vapore aiuterà la buona riuscita ;) Condire con alchermes o con miele sciolto in padella.

17 Feb 2022 Enogastronomia

SCROCCAFUSI MARCHIGIANI
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LA BEFANA

La Befana, corruzione lessicale di Epifania (dal greco ἐπιφάνια, epifáneia) attraverso bifanìa e befanìa, è una figura folcloristica legata alle festività natalizie, tipica di alcune regioni italiane e diffusasi poi in tutta la penisola italiana, meno conosciuta nel resto del mondo. Secondo la tradizione, si tratta di una donna molto anziana che vola su una logora scopa, per fare visita ai bambini nella notte tra il 5 e il 6 gennaio (la notte dell'Epifania) per riempire le calze lasciate da essi, appositamente appese sul camino o vicino a una finestra; generalmente, i bambini che durante l'anno si sono comportati bene riceveranno dolciumi, caramelle, frutta secca o piccoli giocattoli. Al contrario, coloro che si sono comportati male troveranno le calze riempite con del carbone o dell'aglio.L'origine fu forse connessa a un insieme di riti propiziatori pagani, risalenti al X-VI secolo a.C., in merito ai cicli stagionali legati all'agricoltura, ovvero relativi al raccolto dell'anno trascorso, ormai pronto per rinascere come anno nuovo, diffuso nell'Italia settentrionale, centrale e meridionale, attraverso un antico Mitraismo e altri culti affini come quello celtico, legati all'inverno boreale.Gli antichi Romani ereditarono tali riti, associandoli quindi al calendario romano, e celebrando, appunto, l'interregno temporale tra la fine dell'anno solare, fondamentalmente il solstizio invernale e la ricorrenza del Sol Invictus. La dodicesima notte dopo il solstizio invernale, si celebrava la morte e la rinascita della natura attraverso Madre Natura. I Romani credevano che in queste dodici notti (il cui numero avrebbe rappresentato sia i dodici mesi dell'innovativo calendario romano nel suo passaggio da prettamente lunare a lunisolare, ma probabilmente associati anche ad altri numeri e simboli mitologici) delle figure femminili volassero sui campi coltivati, per propiziare la fertilità dei futuri raccolti, da cui il mito della figura "volante". Secondo alcuni, tale figura femminile fu dapprima identificata in Diana, la dea lunare non solo legata alla cacciagione, ma anche alla vegetazione, mentre secondo altri fu associata a una divinità minore chiamata Sàtia (dea della sazietà), oppure Abùndia (dea dell'abbondanza).Un'altra ipotesi collegherebbe la Befana con un'antica festa romana, che si svolgeva sempre in inverno, in onore di Giano e Strenia (da cui deriva anche il termine "strenna") e durante la quale ci si scambiavano regali.La Befana secondo interpretazioni largamente accettate in centro e nord Europa si richiamerebbe alla figura celtica di Perchta, assimilabile ad alcune figure come ad esempio Frigg in Scandinavia, Holda in nord Europa, Bertha in Gran Bretagna, Berchta in Austria, Svizzera, Francia e Nord Italia; è una personificazione al femminile della natura invernale, viene rappresentata come una vecchia gobba con naso adunco, capelli bianchi spettinati e piedi abnormi, vestita di stracci e scarpe rotte, aleggiando sopra i campi e terreni di notte ne propizia la fertilità, e viene festeggiata nei 12 giorni che seguono il Natale, culminanti in coincidenza con l'epifania.Già a partire dal IV secolo d.C., l'allora Chiesa di Roma cominciò a condannare tutti riti e le credenze pagane, definendole un frutto di influenze sataniche. Queste sovrapposizioni diedero origine a molte personificazioni, che sfociarono, a partire dal Basso Medioevo, nell'attuale figura ripulita da contaminazioni favolistiche o pagane, anche se il suo aspetto, benevolo e non negativo, è stato ed è tuttora, per influenza della festa di Halloween, erroneamente associato a quello di una strega. In realtà non è una strega, ma una vecchina affettuosa, rappresentata su una scopa volante, antico simbolo che, da rappresentazione della purificazione delle case (e delle anime), in previsione della rinascita della stagione.Condannata quindi dalla Chiesa, l'antica figura pagana femminile fu accettata gradualmente nel Cattolicesimo, come una sorta di dualismo tra il bene e il male. Già nel periodo del teologo Epifanio di Salamina, la stessa ricorrenza dell'Epifania fu proposta alla data della dodicesima notte dopo il Natale, assorbendo così l'antica simbologia numerica pagana.La Befana a GubbioNel 1928, il regime fascista introdusse la festività della Befana fascista, dove venivano distribuiti regali ai bambini delle classi meno abbienti. Dopo la caduta di Mussolini, la Befana fascista continuò a essere celebrata nella sola Repubblica Sociale Italiana.Nel periodo più recente, innumerevoli e largamente diffuse sono le rappresentazioni italiane della Befana e le feste a lei dedicate; spesso si tratta di un figurante che si cala dal campanile della piazza di un paese, oppure di vecchiettine travestite per distribuire regali ai bambini. La tradizione la vuole "vecchia" ad indicare il finire di un ciclo: con il solstizio d'inverno si passa infatti dal vecchio al nuovo, dal freddo e dalle notti interminabili all'allungarsi del periodo di luce; inoltre, a livello di calendario legale, con la fine dell'anno si entra nel nuovo anno gregoriano; anche a livello liturgico si conclude il Tempo Liturgico forte, natalizio, e comincia quello Ordinario. Proprio per questo il giorno dell'Epifania, quando si festeggia anche la Befana, viene recitato "Epifania, tutte le feste porta via".

04 Jan 2022 Cultura

LA BEFANA
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IL FRUSTINGO

FrustingoJump to navigationJump to searchFrustingoMandorle e noci in un frustingo appena fattoOriginiLuogo d'origine ItaliaRegioneMarcheDiffusioneProvince di Ascoli Piceno Fermo e MacerataDettagliCategoriadolceIngredienti principalifichi, uva sultanina, farina di grano tenero, zucchero, olio extra vergine di oliva, canditi, cedro, noci, mandorle, cacao, cioccolato extra-fondente, caffè, liquori misti.Il frustingo (o fristingo) è un dolce tipico marchigiano a base di frutta secca e fichi; in ascolano è detto frëštìnghë, in fermano frustingu e nel pesarese bostrengo.Storia e preparazione[modifica | modifica wikitesto]Il frustingo deriva dal panis picentinus, un pane povero e sostanzioso, descritto dagli antichi Romani; la ricetta prevedeva di impastare l'alica (semolino composto da farro, orzo, grano duro, spelta e grano gentile marzaiolo) con il succo d'uva passita e di cuocere l'impasto ottenuto in olle di creta. Fu oggetto dell'interesse di Plinio, che descrisse come veniva consumato ammorbidito nel latte mielato.La ricetta classica, che si è lentamente e naturalmente evoluta nel tempo, sia per il variare del gusto che per ovviare alla scarsa reperibilità di alcuni ingredienti, prevede quale composto principale il pane raffermo tagliato finemente ed ammorbidito in una sorta di brodo di fichi secchi mescolato a mosto cotto (nelle Marche chiamato sapa) al quale vengono aggiunti frutta secca, cioccolato e spezie (senza dimenticare una spruzzatina di mistrà all'anice, presente in numerosi dolci marchigiani).L'impasto si lavora a lungo, con l'aiuto di olio d’oliva locale da aggiungere di tanto in tanto. Dopo un prolungato riposo e posto nelle forme, il frustingo viene quindi cotto nel forno a legna per essere finalmente gustato, magari accompagnato da un bicchiere di vino cotto. Il frustingo è inserito ufficialmente fra i prodotti tradizionali della regione quale tipicità da salvaguardare, tutelare e promuovere.Ingredienti di un tipico frustingo: fichi, uva sultanina, farina tipo "0" (o più spesso farina di tritello), zucchero o miele, olio extra vergine, canditi, cedro, noci, mandorle, cacao, cioccolato extra-fondente, caffè in polvere e liquido, liquori misti.

20 Dec 2021 Enogastronomia

IL FRUSTINGO
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IL FUOCO DELLA VENUTA

Loreto e la tradizione dei Fuochi della VenutaPubblicato il 05/12/2018 da Andrea RossettiA meno che non siete di Loreto o dintorni, vi sfidiamo a rispondere a questa domanda: sapete cosa sono i Fuochi della Venuta? Vi diamo un aiutino: si tratta di una tradizione antichissima, o meglio di qualcosa dal sapore profondamente religioso. Un altro aiutino? Invece di fuochi potete aver sentito parlare di “focheracci”, “faoni”, “fogarò”, o “foghère”, oppure “faori” (favori), che sembra rievocare l’aiuto di Dio sui suoi fedeli. Vi abbiamo incuriosito? Allora leggetevi questo post blog, che vi svelerà un pezzo importante del “cuore mariano della cristianità” (Giovanni Paolo II).La processione in piazza durante la Festa della VenutaCos’è la Festa della VenutaLa Festa della Venuta della Santa Casa, il 9 dicembre, rappresenta un’importante ricorrenza per Loreto che si veste a festa soprattutto nella Piazza della Madonna. Si tratta di una rievocazione storica che celebra il trasporto nella città mariana della Santa Casa; nelle campagne intorno alla città mariana si accendono fuochi e falò e tutte le campane delle parrocchie suonano a festa, mentre in Piazza della Madonna si tiene la veglia di preghiera. Il momento culminante è alle 3 di notte, l’ora in cui si riteneva che le tre pareti fossero approdate nel punto in cui ancora si trovano.La Basilica della Santa Casa illuminata in occasione di una precedente Festa della Venuta (Foto Ionut Burloiu)Ancora oggi la tradizione religiosa dei Fuochi della Venuta, perpetrata anche nei comuni lungo la Via Lauretana, viene accompagnata dai bagliori diffusi nella campagne che contribuiscono a creare atmosfera mistica, coinvolgendo intere famiglie.E’ infatti usanza comune mettere fuori dalle finestre lumi accesi per indicare simbolicamente la strada degli angeli trasportatori, mentre nei “fogarò” o “fogaroni” gli uomini accendono ancora oggi fuochi pirotecnici, con le donne intente ad offrire ai presenti vino e carne alla griglia, recitando il Santo Rosario e cantando le litanie lauretane.Uno dei “focaracci” accesi durante i Fuochi della VenutaQuando le fiamme – accese alla mezzanotte – si spengono, l’usanza vuole che i giovani le saltassero per purificarsi, ballando poi tutto intorno fino allo spegnimento naturale. Il ‘tizzo’ raccolto da quei bracieri era considerato un potente talismano, capace di annullare le azioni malefiche delle streghe.Tra tradizione, leggenda e… sacre scrittureNella storia del Cristianesimo si narra che gli abitanti di Loreto, per un’enorme gratitudine verso Dio, cominciarono ad accendere i fuochi d’allegrezza per illuminare la notte tra il 9 e il 10 dicembre, proprio perché in quella notte, nel 1294, il luogo sacro dove la Madonna nacque, visse e ricevette l’annuncio dell’arcangelo Gabriele, fu trasportato da Nazareth alle Marche (prima a Posatora di Ancona, poi nella selva della signora Loreta e sul campo di due fratelli, e infine sulla pubblica via che attraversava la sommità del Monte Prodo, il colle lauretano, dove si trova tutt’ora).Questi fuochi, a partire dal 1617, accesero le campagne della zona, proprio con l’intento di guidare, con la luce dei falò, il cammino e l’attesa della “Venuta”, ovvero dell’arrivo della Santa Casa di Nazaret, ed oggi viene riproposto in molte comunità delle Marche.L’interno della Santa Casa di Nazareth e, a destra, un momento della Madonna di Loreto portata in processioneSecondo gli storici, invece, la casa di Maria venne portata a Loreto su iniziativa della nobile famiglia Angeli, ma per certo la veridicità della casa è stata attestata negli anni da numerose prove storiche e archeologiche che hanno confermato la loro origine palestinese risalente ai tempi di Gesù.La Traslazione della Santa Casa di LoretoLa Traslazione della Santa Casa si festeggia il 10 dicembre, ma la notte prima la città è in veglia proprio per la Venuta, ovvero il momento in cui la Traslazione miracolosa, avvenuta per mano angelica, ha fatto sì che le tre pareti integre della Santa Casa di Nazareth (dove visse Gesù e la sua famiglia) arrivassero sul colle lauretano. I fatti risalgono al 1296, anche se il misterioso viaggio della Santa Casa iniziò già nel 1291, contemplando in totale ben cinque traslazioni, di cui una a Tersatto (in Croazia) e le altre tra Ancona e Recanati.La “Traslazione”, di Francesco FoschiLa casa, trasportata da bellissimi angeli, si posò su un colle coperto da un bel bosco di lauri. Intorno alla casa di Nazareth sorse una cittadina denominata, dalla vegetazione presente, Loreto. Una tradizione popolare narra che i pini posti lungo i margini della strada adriatica, da Civitanova a Loreto, si siano chinati al passaggio della Casa e siano rimasti così, riverenti verso la Santa Casa.Per capire il perché della Traslazione bisogna aggiungere che a Nazareth, sempre secondo la tradizione, l’abitazione era in qualche modo protetta dalla costruzione di una chiesa, ma i venti di guerra e i Saraceni abbatterono l’edificio religioso e si preparavano a distruggere l’abitazione di Maria.Fu allora che alcuni angeli la sollevarono e la portarono in Croazia (12 maggio 1291) per poi spostarla nuovamente presso Recanati, in un bosco infestato da pericolosi briganti (2 dicembre 1294). Da lì arrivò al possedimento dei fratelli Antici, che però non seppero rendersi degni della grazia ricevuta, tant’è che si impossessavano delle offerte dei pellegrini e litigavano tra loro per dividersele.A questo punto gli angeli realizzarono l’ultima Traslazione, e a sua protezione venne eretto un forte muro, detto dei recanatesi, per difendere la costruzione dalle intemperie e dal degrado del suolo. Oggi una splendida e maestosa basilica ospita al suo interno la Santa Casa: tutto intorno alle mura originali è presente un lastricato contraddistinto da un “solco”, scavato naturalmente dalle centinaia di migliaia di pellegrini che lì si inginocchiano per pregare.La preghiera, le lodi e l’atmosfera festosa quanto devota caratterizzano ancora oggi la Festa e i Fuochi della Venuta.La Santa Casa di Loreto e, a destra, i solchi scavati dai pellegrini

09 Dec 2021 Cultura

IL FUOCO DELLA VENUTA
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Cucina marchigiana: l’abc dei prodotti tipici della regione

UN TERRITORIO CHE CUSTODISCE GELOSAMENTE TRADIZIONI E USANZE DEL PASSATO, RITUALI E PRATICHE DI UNA VOLTA, CUCINA COMPRESA: ECCO I PRODOTTI TIPICI DELLE MARCHE.Quella marchigiana è una terra di sapori semplici, piatti poveri che al pescato fresco della costa coniugano le prelibatezze dell’entroterra. Una regione da sempre vocata alla piccola imprenditoria, fra botteghe, aziende agricole, casari, allevatori, apicoltori che hanno fatto la storia di questa terra. I prodotti più rappresentativi? Abbiamo cercato di radunarli qui.I prodotti tipici delle MarcheAnicettiL’anice è una delle piante più utilizzate nelle Marche per dolci e liquori. Ne sono un esempio gli anicetti, biscotti fragranti preparati solitamente con farina, zucchero, anice, latte e uova, anche se gli ingredienti variano a seconda della zona.Biscotti del pescatoreIl nome viene dalla capacità di questi dolcetti di mantenere intatta la propria consistenza a lungo: non a caso erano i biscotti che i pescatori di Fano portavano con loro nelle traversate in mare. Per farli occorrono farina, uova, zucchero, burro ammorbidito, uva sultanina, lievito e frutta secca a piacere (solitamente noci, mandorle e pinoli).Biscottini sciroppati di Fratte RosaChiamati anche biscutìn, i biscottini sciroppati sono dei dolcetti tipici di Fratte Rosa, piccolo comune collinare a cavallo tra le valli del Metauro e del Cesano, in provincia di Pesaro-Urbino. Nascono durante la prima guerra mondiale, quando venivano spediti al fronte dalle famiglie marchigiane per rinfrancare i soldati della trincea. Si preparano con farina, uova e olio d’oliva.BostrengoDolce antico chiamato anche frustingo, a seconda delle zone, e solitamente legato alle feste di Natale. Si tratta di una preparazione a base di frutta secca, pane raffermo ammollato in una sorta di brodo di fichi secchi e mosto cotto, cioccolato, olio, spezie e Mistrà all’anice, tipico liquore marchigiano.CacciannanzeTipiche di Ascoli Piceno, sono delle focacce a base di pasta di pane, condite con aglio, rosmarino, sale, olio extravergine e cipolla (facoltativa), e “pizzicate” sui bordi esterni. La forma può essere rotonda o rettangolare (per saperne di più, Le focacce delle Marche).CalcioniFamosi nella loro versione dolce, con ricotta, zucchero e liquore, i calcioni sono una sorta di fagottelli presenti anche nella variante salata, ripieni di ricotta di pecora, formaggi e maggiorana. Tipici della zona di Treia, dove ogni anno vengono celebrati anche in una sagra dedicata, sono conosciuti anche con il nome di carciù, e vengono solitamente conditi con sugo di pomodoro.ChichiripienoUna focaccia farcita con peperoni rossi e gialli, olive verdi, alici, tonno, carciofini e a volte capperi, tipica di Offida.CiarimboliSalume preparato a partire dalla membrana esterna che ricopre il budello, condita con sale, pepe, aglio e rosmarino e lasciata insaporire per 24 ore. Una volta asciutta, viene tagliata in fettine sottili, da gustare leggermente cotte.Ciambelle di mostoDolcetti profumati al mosto e l’anice, morbidi e compatti, preparati con latte e farina.CiambelloneViene preparato un po’ in tutta Italia, è il dolce tipico della colazione (Storia della colazione italiana) ma è particolarmente legato alla zona di Montefeltro: il ciambellone è un dolce povero che si prepara con pochi ingredienti, tipico della cultura contadina, in passato chiamato anche “il dolce delle folle”. Non esiste un’unica ricetta, ogni regione (e famiglia) ha la sua: c’è chi lo prepara con lo yogurt, chi con il burro e chi con l’olio, chi usa il latte e chi propone addirittura una versione all’acqua.CiauscoloSalume spalmabile che gode della dicitura Igp, a base di carni di maiale impastate e insaccate in un budello naturale.CiavarroUna volta specialità del 1° Maggio, il ciavarro – piatto tipico di Ripatransone – è oggi preparato tutto l’anno. Una ricetta “povera” perché a base di ingredienti di umili origini, ma in realtà ricchissima di sapore. Si tratta, infatti, di una zuppa fatta con 12 varietà di cereali e legumi: fagioli rossi, fagioli cannellini, fagioli borlotti, fagioli bianchi di Spagna, piselli secchi, ceci, fava, favino, cicerchia, lenticchie, grano e granoturco.Cipolla di SuasaColtivata nell’area di Castelleone di Suasa e del limitrofo San Lorenzo in Campo, presenta un bulbo grande dalle tuniche rosacee e un sapore piuttosto dolce.Crema frittaUna crema pasticcera molto densa, tagliata a cubetti, passata nell’uovo e nel pangrattato e fritta in olio bollente. Il risultato sono una serie di cubetti golosi, da consumare durante il tipico aperitivo con olive all’ascolana, per bilanciare il gusto salato di quest’ultime.Crescia“Crescia e acqua al mattino, polenta o erbe alla sera”: è il tradizionale detto del contadino marchigiano, che faceva di questa specialità la “regina” della dieta quotidiana, secondo quanto scriveva il periodico cattolico “L’eco del Giano” (1906). Ma non fatevi ingannare: malgrado sia da sempre considerata una pietanza povera, veniva servita anche sulle tavole delle famiglie nobiliari, a conferma della sua “trasversalità”. Gli ingredienti di base sono farina (di grano duro o di mais), uova, acqua, sale, pepe e spesso anche strutto. È diffusa in tutte le province della regione e conta numerose varianti locali, alcune della quali rivisitano completamente la ricetta.CutanèiGnocchetti composti da acqua, farina e poche uova, tradizionalmente conditi con ragù di carne e formaggio grattugiato, tipici di Senigallia. Oggi vengono preparati anche con le patate e serviti con anatra, coniglio o castrato.Formaggio di fossaNasce a Sogliano, in provincia di Forlì Cesena, ma viene preparato anche in diversi comuni del Montefeltro: il formaggio di fossa è una specialità a pasta semi-dura prodotta con latte di vacca, pecora o misto. La peculiarità consiste nel fatto che, inserito in un sacchetto di tela, riposa sotto terra in grotte nella roccia o nel tufo per un periodo che va dagli 80 ai 100 giorni. In questo lasso di tempo, fermenta, perde peso e acquista aromaticità.GalantinaSecondo piatto di carne (solitamente pollo o gallina) originario dell’Emilia e diffuso anche nelle Marche. Una ricetta probabilmente ispirata alla ballotine francese, a base di carne d’anatra. Per realizzarla, si trita la carne di pollo fatta marinare e ammorbidire a lungo e si farcisce con affettati, uova e altre carni, si impasta cercando di conferire una forma allungata e poi si cuoce nel brodo. Si serve freddo, tagliato a fette.Maccheroni al pettineMolto simili ai garganelli romagnoli (ma più grandi) i maccheroni vengono realizzati con un impasto all’uovo e sono così chiamati per lo strumento utilizzato per creare le righe in superficie: il pettine del telaio da tessitura, un tempo diffuso nelle case di campagna per lavorare lino e canapa.MistràTipico amaro da fine pasto a base di anice verde, finocchio selvatico, mele e arance, comunemente prodotto in casa, anche se nel tempo sono nate delle versioni industriali.Olive all’ascolanaPreparate con la varietà Tenera Ascolana Dop, farcita con un misto di carni arrostite e poi tritate, impastate con uovo, parmigiano grattugiato e noce moscata. Vengono fritte e servite ben calde (per assaggiarne di veramente buone, ecco la Classifica delle migliori olive all’ascolana delle Marche).Salame di FabrianoNel comune di Fabriano, in provincia di Ancona, a dominare la scena è il tipico salame fatto con carni di maiale di razze autoctone dell’entroterra anconetano, di colore scuro. Il grasso è presente in una percentuale di circa l’8-12%. L’impasto viene condito con sale, pepe e vino bianco, e insaccato in un budello gentile, ovvero la sezione più morbida dell’intestino, quella più adatta alle lunghe stagionature e in grado di conferire una spiccata aromaticità.StroncatelliUna pasta nata nella comunità ebraica di Ancona: sono gli stroncatelli, degli spaghetti lunghi e sottili a base di farina di grano duro, sale e poche uova. Peculiarità di questo formato consiste nella lavorazione: la tradizione impone a tutte le massaie di ungersi le mani con dell’olio extravergine di oliva prima di cominciare a tirare l’impasto, perché dovrà essere lavorato a lungo e sempre con le mani bagnate d’olio.TacconiPasta a base di farina di mais, farina di grano e acqua, che prende il nome dal termine dialettale tacca (toppa), che a sua volta ha origine dal germanico tak, ovvero “scheggia di legno”. Parola che fa riferimento alla forma imprecisa, solitamente un quadrato irregolare o romboidale. Generalmente, vengono conditi con sugo di pomodoro e ricotta.TorcelliSpaghetti sottilissimi a base di uova e farina, cotti in brodo oppure con una salsa di sedano e pomodoro: sono i torcelli, formati tipici della cena di chiusura del Kippùr, il giorno dell’espiazione delle festività ebraiche, consumati insieme a zucca gialla in umido e la tradizionale ciambella dolce. Un’altra ricetta tipica della comunità ebraica, che col tempo si è affermata in diverse zone della regione.VincisgrassiCelebre primo piatto della cucina marchigiana, cugino ancor più ricco e sontuoso della lasagna emiliana. I vincisgrassi sono delle sfoglie di pasta di grano duro, farina 00, burro e Marsala sbollentate e poi stese ad asciugare, prima di essere farcite a strati (proprio come una lasagna) con ragù di pollo e funghi, per essere infine cotte in forno. Tipiche della zona del maceratese, queste sfoglie vengono spesso condite anche con un intingolo di frattaglie oppure, soprattutto in passato, con il tartufo bianco di Acqualagna.

01 Dec 2021 Enogastronomia

Cucina marchigiana: l’abc dei prodotti tipici della regione
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